La chiesa di
S.Apollinare di S.Giovanni Persiceto, spazio
culturale di grande suggestione, ha ospitato gli artisti Danilo
Busia e Mauro Verasani per la mostra OFFICINA SANCTÓRUM; l'esposizione, patrocinata dal Comune di S. Giovanni in Persiceto, in
collaborazione con Auser e FIOM, inaugurata sabato 19 Ottobre resterà aperta al pubblico sabato e
domenica 26 e 27 Ottobre, dalle ore 10 alle 12,30, e dalle ore 16 alle 19.
Mauro Verasani, il Sindaco di Sant'Agata Bolognese, l'Assessore alla Cultura del Comune di San Giovanni in Persiceto, Danilo Busia, Laura Magro |
E' stato un
piacere per me introdurre questa mostra in cui gli artisti ci presentano
attraverso le loro differenti poetiche due temi centrali: il tema del lavoro e
il tema della spiritualità. Argomenti che riguardano ciascuno di
noi perché sono fondanti dell’individuo. Le opere di Danilo Busia e Mauro
Verasani ci conducono ad un viaggio verso l’ambivalenza dell’Essere, sia esso
Spirito, Uomo o Materia; è così che partiamo dal valore dell’opera d’arte per
guardarci e interpretare la società. Lo straniante accostamento di termini
latini nel titolo della mostra “Officina SanctÓrum” (Fabbrica di Santi), è lo stimolo iniziale per iniziare questo viaggio
attraverso la poetica dei due artisti, per proseguire nelle riflessioni sui
simboli e sui motivi ricorrenti dei loro lavori. Sacro e profano, umano e
spirituale, architettonico e organico, tradizione e trasformazione, sono alcuni
dei binomi di questo percorso espositivo dalla matrice metafisica (metafisica
intesa come espressione che prescinde dalla realtà e dai suoi comuni rapporti
per creare una realtà parallela in cui oggetti e persone rappresentate fuori
dal loro ambiente consueto, o in accostamenti fantastici, acquistano un nuovo
suggestivo significato).
Quello che,
però, accomuna davvero le ricerche dei due artisti è, a mio avviso, un termine
preciso: densità. Densità formale, estetica e densità di
significati.
Mauro Verasani, Heilige die arbeit, fotografia digitale montata su pannelli dibond e plexiglass sagomato a volta |
Mauro Verasani, Reliquie, sullo sfondo i pannelli fotografici Heilige die arbeit |
Nella forma
a volta dei piccoli pannelli troviamo un chiaro riferimento all’ iconografia
cattolica della Pala d’Altare, raffigurante in genere soggetti religiosi quali
Santi, Apostoli o Martiri; qui troviamo invece rappresentati dei Santi/Operai
in divisa da lavoro, sullo sfondo l’ambiente industriale, sovrastati da un
cielo incombente, surreale, che ricorda quasi alcuni dipinti di Tiepolo (come “Il trionfo della Fortezza e della Sapienza”,
Collezione Contini Bonacossi, Firenze).
La postura
dei soggetti è altezzosa e provocatoria: l’uso della frontalità ci obbliga a un
confronto diretto, ci costringe a considerarli. Il ¾ avrebbe offerto allo
sguardo una via di fuga, avremmo potuto cercare un profilo o immaginarne la
schiena, qui invece l’uso della frontalità è quasi perentorio, è una presa di
posizione, una vera e propria presa di coscienza della loro presenza.
Di grande
interesse è anche la struttura di queste immagini, che sono seriali,
ripetitive, e che si pongono come un chiaro riferimento formale al patrimonio
artistico, storico e culturale del territorio. Riscontriamo infatti molti
parallelismi e analogie con l’impianto iconografico bizantino, di cui
abbiamo splendidi esempi di opere musive a Sant’Apollinare Nuovo,
Sant’Apollinare in Classe, o in quelli meravigliosi della Basilica di San
Vitale (è questa occasione di visita e confronto con queste bellissime opere
che ci invidiano nel mondo).
Gli elementi
dell’iconografi bizantina che ritroviamo nelle foto di Mauro Verasani sono i
seguenti:
- Frontalità
dei soggetti, che astrae negli antichi lavori, per Mauro si costituisce come
obbligo attenzionale.
- La ripetitività
dei gesti, che negli Operai si fa postura beffarda, quasi fastidiosa.
- La fissità degli sguardi e la
ieraticità delle espressioni, che diventa sguardo scrutatore dei Santi/Operai.
- La monocromia degli sfondi è nelle
foto un cielo incombente, surreale, sempre simile e sempre diverso.
- Gli elementi decorativi,
ripetitivi e riempitivi, nel contesto industriale di Verasani, diventano sfridi
di fabbrica, ma anche capitelli antichi, resti di colonne, evocative di una
cultura ‘alta’ uniformata e livellata con una cultura ‘bassa’, produttiva,
aspecifica.
- La mancanza del piano di appoggio
che nei bizantini rendeva i soggetti fluttuanti, quasi sospesi, qui è totale
assenza: non solo manca il piano ma sono addirittura tagliati i piedi dei
soggetti, che appaiono così radicati a terra. La mancanza dei piedi è un elemento
alienante. Cristo lava i piedi ai suoi discepoli, gesto ripetuto il Giovedì
santo dai dignitari della chiesa. In Daniele 2, 3 da 1-35, Nabucodonosor sogna una gigantesca statua con testa d'oro, petto d'argento, ventre di bronzo, gambe di ferro, e piedi di argilla, raffigurante il succedersi dei regni della terra. I piedi evocano stabilità, noi ci appoggiamo
su di loro, ma ci permettono anche di spostarci; gli Operai/Santi sono
simbolicamente impossibilitati a muoversi, piantati a terra come alberi, come
se le loro radici fossero ben saldate al suolo industriale, imprigionate. Il
piede è anche il punto in cui vengono feriti (a volte fino a morire)
gli eroi e gli dèi della tradizione pagana: Ra viene ferito al piede dal verme
velenoso di Iside, Orione da uno Scorpione, Achille da una freccia, Filottete
da un serpente. Per questo il piede è simbolo di forza ma anche di debolezza.
Questo
richiamo iconografico rappresenta il forte segnale dell’importanza e del valore
dato al territorio, che è costitutivo dell’individuo; il contesto sociale,
urbano, culturale e storico è fortemente caratterizzante per il nostro
Essere. Molti altri sono gli elementi interessanti in questo lavoro in cui
troviamo ironia, provocazione e denuncia: dalla serialità nell’ utilizzo
dell’immagine, all’ uso prospettico di tre punti di vista differenti
nell’ inquadratura. L’Operaio/Santo, incombente e ieratico, è visto dal
basso, mentre la struttura industriale è ripresa con la prospettiva inversa,
dall’ alto (ad indicare quasi l’incongruenza sostanziale tra l’Essere-Uomo e la
Fabbrica). Il paesaggio è immobile, l’unica variazione sono gli elementi di sfrido
industriale, residui di quel lavoro ‘santificatore’. Il cielo
apparentemente immobile, ripreso dal terzo punto di vista
prospettico, subisce delle lievi variazioni, è incombente come gli Operai/Santi
e allo stesso tempo rassicurante nella sua fissità, come il paesaggio
industriale che circonda le figure fotografate.
Un altro elemento importante sono i dettagli che, proprio grazie alla
ripetizione seriale delle immagini, anch'esse prodotto industrializzato
dall'artista, riusciamo a individuare. Quasi una sorta di gioco per aguzzare la
vista, siamo guidati nello sguardo a cercare le differenze tra immagine e
immagine; spunta così la più evidente, il viso degli operai. Cogliamo così la
loro soggettività, frammento di una ‘classe operaia’ cui fanno eco le parole di
uno splendido Gian Maria Volonté che, nella pellicola del 1971 di Elio Petri
“La classe operaia va in Paradiso”, nei panni di Lulù si trova a
dire: “La realtà è la realtà, c’è mica altro...”.
Danilo BUsia, Cattedrale, tecnica mista su tavola smaltata, cm 55 x 55 |
Danilo Busia, disegni su carta |
Lo stesso territorio costitutivo dell’Essere lo ritroviamo in maniera più
esplicita nei disegni di Danilo Busia, che racconta, attraverso la
rappresentazione grafica, alcune importanti architetture cristiane,
reinterpretando gli archetipici luoghi di culto, ibridandoli con le fabbriche
industriali.
In questi disegni lo sguardo, anziché essere guidato in un percorso di
ricerca, è uno sguardo che sfiora quasi il senso di panico, inghiottito da una
moltitudine di particolari chiari e nitidi, dettagliati all’ esasperazione.
La sua è un’analisi del reale in cui il progetto architettonico, dalla
prospettiva azzerata, bidimensionale, si tramuta in progetto onirico, immaginifico,
lirico.
Lo spazio bianco dello sfondo è uno spazio psichico, quasi uno spazio
imbarazzante, ne veniamo colpiti perché il bianco attua una sorta di
congelamento, immobilizza. In questa fissità riconosciamo alcuni importanti
edifici sacri: La Certosa di Pavia, il Duomo di Ferrara, il Duomo di Modena, il
Duomo di Siena, la Basilica di San Vitale, il Duomo di Firenze, il Battistero
di Pisa, la Chiesa di San Petronio.
Architetture sacre, edifici religiosi della cristianità, luoghi di culto ma
anche contenitori della fede.
Contenitori inerti, appiattiti e astratti nel segno pulito e preciso della
graffite, immobili. Sembrano prendere vita nel contrasto cromatico che emerge
dall’ ibridazione con le strutture meccaniche industriali: spiccano, infatti,
dei contrasti cromatici che salvano il nostro sguardo, emergono proprio da questa ibridazione,
fornendogli un approdo, una destinazione. Paradossalmente ciò che ci salva
dallo spaesamento è appunto questa ibridazione, questo punto di contatto
colorato, il mutamento e trasformazione dell’edificio sacro in fabbrica, una
sorta di impossibile germinazione organica sembra scaturire come scaturiscono
le sostanze solide, liquide e gassose prodotte dalle fabbriche.
Industrie che si fondono, si saldano, si insinuano meccanicamente nelle
strutture architettoniche religiose, nel luogo dello Spirito.
Prende vita una sorta di identità meccanico-organica che diventa un nuovo
centro di riferimento del tessuto urbano, emotivo e psicologico. Metafora di
uno slittamento, ma anche evoluzione, dei valori sociali e morali che
strutturano la nostra forma psichica.
Elementi spirituali fondanti della fede, si compenetrano con elementi
materiali e terreni, profani e concreti al tempo stesso. Questa ibridazione è
quindi costitutiva dei cristiani, le ‘pietre viventi’ dell’edificio della fede.
Queste identità ibride divengono metafora della nostra natura, in cui interazione
e tensione tra elementi orientati ad una dimensione spirituale, ed elementi, pratiche
e interessi che invece si concentrano su aspetti concreti e terreni, generano
il mutamento dello Spirito di cui la chiesa è il Sacro Tempio. A Gerusalemme, il
grande Tempio di Salomone era il luogo dell’incontro con Dio nella preghiera,
eretto per dare un segno visibile della sua presenza in mezzo al popolo. Cristo
stesso è divenuto poi “Il Tempio vivente del Padre”. San Paolo agli Efesini
disse: “Voi siete edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei
profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la
costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo del Signore; in lui
anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo
dello Spirito”. Queste pietre viventi diventano per
Danilo Busia delle componenti meccaniche, lo Spirito si trasforma in una sorta
di macchina produttiva, in cui la ripetitività e la ritualità liturgiche
diventano la ripetitività e la serialità industriale, in cui la preghiera si fa
meccanico mantra; questa produzione è, però, anche energia creatrice, è materia
organica, quasi concreta necessità vitale.
Ben si addicono a questo contesto le parole di un autore definito profano,
addirittura blasfemo, Henry Miller, che scrisse: “… ho il ricordo
affollato di particolari simili a migliaia, miriadi di facce, gesti, storie,
confessioni tutte incastrate come una facciata allucinante di tempio indù fatta
non di pietra ma d’esperienza della carne umana, un mostruoso edificio di sogno
fatto completamente di realtà eppure non di una realtà in sé, ma solo il vaso
in cui si contiene il mistero dell’essere umano”.